Secondo Universo del mondo ceramico

La ceramica che voglio illustrare in queste righe viene chiamata dagli esperti del settore “arte grossa” o “secondo universo del mondo ceramico”. Questa ceramica è stata trascurata fino all’inizio del XX secolo, in seguito venne catalogata e riconosciuta grazie a studi anglosassoni riguardanti il valore primario e la permanenza di costanti e caratteri specifici per ognuna delle produzioni minori dei centri tradizionali italiani.

 di Antonella Gulli

Si scoprì così che Savona e Albissola ebbero una singolare rilevanza storica con i loro manufatti più grossolani o di uso do- mestico. Infatti la produzione di queste ceramiche, più giustamente denominate terraglie, ha avuto solo in casi eccezionali e solo su commissioni particolari, dei motivi ornamentali. Prima di sviluppare il tema sulle terraglie popolari gialle e nere, deve essere menzionato anche il periodo critico affrontato dalla cera- mica savonese, iniziato nel 1780-1790 e durato fino all’ultimo quarto dell’Ottocento, quando essa cercò di contrastare direttamente il successo della Cream Ware (terraglia color crema inglese, inventata dalla fornace Wedgwood per sopperire al bisogno domestico inglese). Il grande successo di questa manifattura venne anche arricchito dall’innovazione tecnologica che permetteva una decorazione dei pezzi attraverso un procedimento seriale chiamato “transfert painting” (decalcomania). Savona e Albissola corsero subito ai ripari e cominciarono a produrre, da quel momento fino all’ultimo quarto dell’Ottocento, un vasellame in terraglia a monocromia bianca, ispirato a sobri modelli neoclassici e conosciuto localmente come “terra da pipe”. Le quattro principali fornaci che produssero fino alla fine di quel periodo furono: Musso, Folco, Ricci e Marcenaro.

Un altro decoro chiamato “a fioraccio” venne prodotto sempre all’inizio di quel periodo critico, su una terracotta molto modesta con fondo smaltato di colore chiaro. Il decoro, eseguito con colori in blu o marrone, che era un’evoluzione dell’ornato settecentesco conosciuto come “a fiore di patata”.

Il nome delle ceramiche “Taches Noires” nasce da un’osservazione negativa, sull’estetica di queste terraglie, fatta dal prefetto napoleonico Chabrol e seguita da varie segnalazioni sull’attività riguardante la lavorazione di queste terraglie che svolgevano le comunità albissolesi e savonesi. Conosciute come ceramiche a “macchie” o “striature nere”, dovute alla tipica colorazione marrone tendente all’arancio, erano spesso ravvivate da macchie scure che nel loro insieme componevano una specie di disegno molto libero e impreciso. Questo effetto era dovuto alla decorazione con manganese realizzata sotto vernice piombifera. Secondo alcuni studiosi del settore poteva essere fatta volutamente per imitare le venature del legno e dell’agata, per ricordare antiche decorazioni inglesi con influenza cinese, oppure che semplicemente derivasse da un processo di semplificazione, messo in opera per accorciare i tempi di produzione. Le crisi, frequentissime in età napoleonica, dovute alle continue guerre e i dazi protezionistici, all’inizio dell’Ottocento determinarono la chiusura dei mercati spagnoli e francesi e il ridimensionamento della produzione, nel 1815 una nuova produzione soppiantò le “Taches Noires”.

La ceramica in questione venne chiamata Ceramica Nera, in quanto la composizione tecnica è identica a quella delle sorelle Taches Noires, però con l’aggiunta di “vetrina” e grazie ad altri segreti del mestiere. Questa nuova chimica fece nascere una variante, dal colore marrone scurissimo al nero con riflessi violacei, talvolta, vicini all’argento.

La definizione di “terraglia nera” le venne attribuita impropriamente in quanto era una vera e propria terracotta. Forse ha contribuito a donarle questa nomea l’eleganza degli oggetti prodotti: zuppiere con pomoli e manici raffinati, piatti con tese a foglie e festoni, scaldini con manici a nastro che ricordano i famosi argenti liguri. Sono da ricordare anche le veilleuse, tipici oggetti dell’Ottocento usati per scaldare i pasti dei neonati, ma anche atti a fornire un po’ di luce per la notte. Essi ospitavano al loro interno uno stoppino sempre acceso che galleggiava su una piccola ciotola colma d’olio.

Nel 1820, a seguito dell’introduzione da parte dalla Francia di un dazio del 100% sull’importazione di ceramiche, alcuni albissolesi emigrarono Oltralpe. La concorrenza agguerrita delle fabbriche di Mondovì e la specializzazione delle fabbriche inglesi, secondo criteri industriali, indussero verso la metà dell’Ottocento a riconvertire la produzione con il pentolame da fuoco chiamato “Ceramica Gialla”. Dopo la lunga eclisse della ceramica nera si riaffacciò una nuova ricerca dell’elemento decorativo, affidato sempre a tocchi molto rapidi. Per lo più si trattava di disegni geometrici, colature o rappresentazioni di fiori, uccellini o motivi ispirati alla trama dei pizzi che costituivano un’altra tradizione locale. I colori usati, sulla base gialla di questa terraglia a cono, erano verde o bruno; le decorazioni invece non sono frutto di libera fantasia, ma sono dovuti all’impiego di tamponi ritagliati da una spugna nella forma voluta, imbevuti rapidamente nel colore e impressa sopra l’oggetto ingobbiato, prima di passarvi al di sopra la vetrina (decorazione a spugnetta). Questa realtà produttiva era già in auge nella zona ma decadde nella seconda metà del settecento, in quanto era difficile reperire localmente un’argilla refrattaria capace di resistere al fuoco. Solo verso la metà dell’ottocento il ceramista Siccardi, con l’importazione dalla Francia della terra d’Antibes, materiale molto refrattario, unito all’argilla albissolese, ottenne finalmente un prodotto in grado di affrontare il fuoco e il mercato con successo. Il suo esempio venne seguito da altri fabbricanti e diventò una caratteristica dello stesso paesaggio albissolese, con migliaia e migliaia di pentole stese ad asciugare al sole per le vie, sulle spiagge e nei cortili.

Con l’unità d’Italia e il vasto processo politico-economico che ne conseguì, l’abolizione delle barriere doganali interne e l’apertura della linea ferroviaria resero più agevoli i traffici commerciali in Liguria e, di conseguenza, nacquero molte fornaci che, partendo da una dimensione artigianale, si trasformarono in quella semi-industriale. Queste, nel 1887, costituirono un consorzio. Purtroppo la produzione seriale sottrasse al singolo il controllo dell’intero iter produttivo e cadde quindi la premessa indispensabile per la sopravvivenza dell’arte popolare. All’inzio del Novecento la Ceramica Gialla entrò in crisi. A contribuire alla fine di questa produzione fu anche la regola sanitaria del 1901 che limitava l’uso del piombo nelle stoviglie, la concorrenza di gruppi industriali dotati di ampie possibilità finanziarie (come la Richard-Ginori e la Laveno) e lo sviluppo industriale siderurgico in Savona. Purtroppo come ha scritto A. Hauser: “Nulla può fermare la scomparsa dell’arte popolare e la sua sostituzione con l’arte massificata”, e la storia delle ceramiche Nere e Gialle costituiscono una conferma esemplare della sua affermazione.

Bibliografia:

  • Silvio Riolfo Marengo, Vittorio Fagone, Arrigo Cameirana, Nero & Giallo Ceramica popolare ligure dal Settecento al Novecento, Electa
  • Arrigo Cameirana, La terraglia Nera ad Albisola all’inizio dell’800, Marco Sabatelli Edizioni